PNEI: PAURA E IMMUNITA’, QUANDO LA GUARIGIONE E’ POSSIBILE?


Un’esperienza di supporto psicologico in ambito riabilitativo

 
Il mio lavoro presso l’unità operativa di Medicina Riabilitativa include la degenza di Forlimpopoli e il servizio di Forlì.

In entrambi mi occupo, anche se con diverse modalità di presa in carico del paziente, del supporto alle persone che manifestano disagi, conseguenti ai motivi che li hanno portati all’UOMR su segnalazione/confronto con il personale di riferimento. Parallelamente, per gli stessi casi, supporto l’intera equipe, partecipando all’elaborazione del progetto riabilitativo e dei programmi terapeutici.

Il mio supporto viene richiesto in base ai segni di disagio conseguenti della malattia/trauma, che il paziente mostra al fisiatra o al fisioterapista. Da questo confronto, nasce una riflessione condivisa, di individuazione del bisogno, cercando di scindere cosa appartiene al paziente e ciò che può nascere da dinamiche relazionali fra gli operatori.

Considerato che il servizio è prevalentemente a favore di persone che sono già a domicilio e che distano temporalmente dall’evento traumatico mediamente 1 anno, i vissuti psicologici che potessero presentare, risultano più strutturati (sul versante adattivo anche se patologico e/o disfunzionale) e richiedono un maggior tempo di elaborazione e di conseguente presa in carico. Rispetto alla degenza, risulta essere inoltre, minore il numero di pazienti che riconosce di avere bisogno di essere accompagnato nel percorso di adattamento alla malattia/evento.

Durante il ricovero, nella maggioranza dei casi, le persone sono favorevoli ad assecondare il bisogno comunicativo carico della preoccupazione per la propria vita nel caso del paziente o per il proprio caro in caso di familiari.

Quando le incontro il colloquio è solitamente individuale e partendo dalle condizioni fisiche giunge ai nuclei sofferenti e all’espressione delle paure legate alla propria immagine corporea e nel tempo, ai vissuti sofferenti a questa correlate. Emerge frequentemente un vissuto di castrazione e di impotenza legata alla malattia/evento. Spesso queste persone necessitano di un aiuto per affrontare la dolorosa elaborazione della perdita temporale o definitiva di una funzionalità corporea. Come nel corpo, anche nella mente la prima reazione è il blocco.

Per il paziente la ristrutturazione del proprio campo di vita segna il superamento della fase del lutto e l’adattamento alla situazione esistente, inoltre è caratterizzata da un atteggiamento altalenante, fatto di progressivi avvicinamenti e allontanamenti. In questa fase il paziente e la famiglia, avendo la consapevolezza di quanto accaduto, raggiungono la capacità di attribuirgli un senso e la capacità di riprogettare e ripensare la propria vita tenendo conto dei cambiamenti avvenuti.

Tale capacità si basa anche su gli aspetti pretraumatici soggettivi, quindi ogni intervento progettato deve tenere presente e basarsi su indicatori della qualità di vita percepita della persona che abbiamo di fronte per essere vissuto il più possibile “a propria misura.”

Nei confronti dell’equipe, invece, fondamentale risulta gestire e condividere la preoccupazione per il paziente. Sapere che un proprio paziente è “un po’ anche nei pensieri di qualcun altro” fa sentire ogni componente ‘spalleggiato’ e consente di esporsi meno verso fenomeni di sovraccarico. Motiva un'idea di condivisione e può quindi anche prevenire fenomeni di burn-out. L'equipe consente anche di riconoscere la funzione di sostegno psicologico come parte attiva del proprio lavoro. La necessità di difendersi dalla sofferenza interna non può tradursi, nel distacco emotivo e nella “tendenza a trattare il corpo” al posto del “trattare una persona”. Tale approccio, favorirebbe nel paziente il sentirsi frammentato e non preso in carico nella sua complessità, attribuendo al corpo un'azione di cura non integrata, “fratturata” all'aspetto emozionale. Essere professionisti che manipolano il corpo non comporta quindi soltanto il possedere una tecnica. In questo contesto essere un operatore che riabilita, significa avvicinarsi a situazioni in cui, l’esito di un lungo lavoro, non sarà mai restituire al paziente la sua precedente efficienza, ma accompagnarlo verso un migliore adattamento e verso una qualità di vita accettabile per sé e per i suoi familiari. Per gli operatori, conoscere e riconoscere le possibili reazioni emotive che un paziente e/o la sua famiglia, possono sviluppare a seguito di eventi traumatici, inoltre, consente di identificare margini di collaborazione diversi anche nell’alleanza terapeutica.

In tale prospettiva che va verso una presa in carico multipla, si interviene riconoscendo che tutte le parti di quella persona sono cambiate e meritano attenzione e che tutti gli operatori sono insieme ed, affrontano, seppur da punti di vista diversi, l’esperienza con lo stesso paziente per lo stesso scopo riabilitativo. Come riconosce la PNEI, la ricchezza si crea nell'integrazione di saperi diversi, che consentono di restituire al paziente una visione globale e di complessità di se stesso.

Quello che serve al paziente è un giudizio clinico prognostico attendibile, condiviso ed espresso nell’equipe. Questo può facilitare il processo di acquisizione della realtà e sostenere la persona e/o la famiglia nella sopportazione dello stress emozionale.



RAPPORTI MENTE E CORPO: i percorsi delle rotture

L’esperienza quotidiana ci ha permesso di riconoscere che intervenire in “itinere”, come avviene presso la degenza, consente di prevenire stili disfunzionali di adattamento all’evento e, favorendo l’espressione del disagio, vengono stimolate adeguate modalità personali e familiari di fronteggiamento all’evento stesso, in un’ottica di qualità di vita percepita. Il passaggio dalle emozioni alla malattia, dallo psichico al somatico, è un funzionamento integrato e complesso dei grandi sistemi di regolazione complessiva dell’organismo, come valorizzato dalla PNEI.

Come se l’accoglienza possa stimolare le difese immunitarie, favorire il processo di guarigione, catalizzarlo e fungere da “cuscinetto al trauma” e intervenire per normalizzare le risposte inibitorie create biologicamente nell'organismo dallo stress subito. Studi hanno dimostrato che situazioni di stress (fisico, psicofisico, emozionale) possono allo stesso modo influenzare il sistema endocrino. Tali reazioni dipendono dalla durata e dalla quantità di ormoni immessi nella circolazione. Durante la fase acuta, l'aumento dell'attivazione biologica funge da stimolatore del sistema immunitario con funzioni protettiva, mentre in condizioni di stress cronico alti livelli sopprimono la risposta immunitaria con meccanismi simili a quelli che si realizzano negli stadi infiammatori. Biologicamente la paura inoltre, nello specifico di ciò che è stato e di ciò che potrebbe essere, agiscono attivando l'amigdala che coinvolge altre aree di risposta allo stress: la sostanza grigia centrale che produce una reazione di “congelamento”, l'ipotalamo laterale che attiva il sistema circolatorio innalzando anche la pressione arteriosa e una riposta sugli assi deputati alla produzione di ormoni.

A livello celebrale è stato dimostrato che vi è inoltre una fissazione dei ricordi legati al trauma come tentativi biologici di controllo della paura. Quindi accogliere le ansie, le preoccupazioni e le paure nei tempi in cui si sviluppano, può consentire di prevenire lo sviluppo di meccanismi patogeni e lo strutturarsi di maggiori difficoltà per la persona nel percorso di guarigione. Permette, inoltre, l’avvio di migliori relazioni sia con la famiglia che con gli operatori.

Nel trauma, l'esperienza dell'emozione è troppo forte da sopportare, di tale entità da riuscire a fugare persino la capacità di poter essere elaborata e l'esperienza totale viene quindi smembrata. Gli eventi e i loro significati perdono connessione. L’episodio traumatico può essere vissuto, infatti, come “annientamento” (A. Freud), come “rottura dell’equilibrio dell’Io” (Greenacre, Walder), quale evento di disarticolazione delle relazioni interattive preesistenti nell’Io. La situazione traumatica rappresenta una minaccia per l'integrità dell'Io e l'esperienza di "essere se stessi" inizia a frammentarsi, contribuendo ad alterare la capacità dell'organismo di mantenere un equilibrio interno stabile, grazie ad un insieme di processi di regolazione che agiscono ogniqualvolta si verifica una variazione delle condizioni esterne.

Quando questo avviene la persona si trova nella condizione di un distacco totale, diretta conseguenza di una disarticolazione e disintegrazione somato–affettiva. Questo processo coinvolge totalmente l’attività psichica e altera i meccanismi biologici, rendendoli inadeguati rispetto a qualsiasi tentativo di reazione.

Nei casi gravi quando la persona è vittima di un trauma il risultato è: un mondo interiore in cui le emozioni non sono verbalizzate e rimangono sconnesse dal significato personale. Non considerare i propri vissuti emotivi non rende possibile l'instaurarsi di un legame significativo con l'Altro, nè con il proprio corpo, perdendo la possibilità anche biologica di interrompere i meccanismi che alimentano lo stress.

Il rischio che si corre è quello di considerare il proprio corpo “rotto” e bisognoso di cure e la mente diventa quindi osservatrice disattenta delle proprie emozioni delegando a un corpo già sofferente la possibilità di esprimere altro dolore. Forse più facile dire “mi fa male solo lì”. È possibile guarire curando solo pezzi? A volte il riconoscere il corpo in quanto canale espressivo, ci aiuta a portare in luce stati di non equilibrio profondi sottostanti.

La mente umana si difende dal trauma tramite la dissociazione che Putnam, ha chiamato "la fuga quando non c'è via di fuga ". Questo meccanismo nel negare l'accesso alla consapevolezza preserva la sopravvivenza, allontanandoci dalla realtà quando diventa particolarmente insostenibile e dolorosa, si traduce in un black out della memoria. Diviene patologica nella misura in cui essa non permette di riflettere sui differenti stati della mente entro una singola esperienza di "identità", mantenendo lo stato di non integrazione.

Nei pazienti, spesso associato alle preoccupazioni attuali e alla drammaticità di questo presente, affiorano spesso anche ricordi di traumi precedenti a volte recenti, a volte antichi. Così l’esperienza traumatica rischia anche di autoalimentarsi. Possono crearsi quindi ulteriori condizioni di stress, che possono anche favorire risposte depressive che creano un'inibizione del sistema immunitario ulteriore. Una recente ricerca di Esther Sternberg riguarda le caratteristiche reazioni come sonnolenza, isolamento, scarso appetito che avvengono quando ci si ammala. “questo tipo di malessere non dipende dalla malattia in sé, ma dall'attività delle citochine del sistema immunitario che interferiscono con l'attività celebrale [...] queste sostanze influenzano anche la memoria e le capacità cognitive: ecco perchè perdiamo di lucidità quando siamo malati.”

È possibile osservare in alcuni pazienti con storie difficili e portatori di una sofferenza profonda quanto l'esperienza traumatica sembra accumularsi, (Khan); questo rende la persona, particolarmente vulnerabile e indifesa nei confronti di ogni esperienza potenzialmente traumatica e più vulnerabile e ricettiva anche rispetto agli agenti esterni ed atmosferici. Tali elementi vengono verbalizzati dai pazienti stessi come “punizioni divine”, “colpe sconosciute che si devono scontare” mettendo la persona in una condizione di assoluta passività e ulteriore disequilibrio rispetto alla malattia.

Tali vissuti nelle persone, se non ascoltati, riconosciuti ed elaborati restano bloccati inibendo risposte; non portano il paziente a sviluppare il desiderio di guarire ma ad alimentare circuiti mentali depressi e demotivanti verso il ri-conoscere anche il significato della riabilitazione su sé e l’importanza di questa, anche quando fa male, è dura o si è stanchi. Rielaborare consente di avviare processi di armonizzazione corpo-mente e può rappresentare per la persona anche l’inizio di una liberazione, addirittura un’opportunità di conoscenza e di scoperta di sé che coinvolge e integra tutte le sue dimensioni. Alcuni pazienti arrivano a verbalizzare “mi serviva questa malattia” “dovevo vivere tutto questo per arrivare qui”.

Nella realtà ad un linguaggio emotivo ne corrisponde uno corporeo. Pensiamo all’emozione della paura e della rabbia, quanti sintomi fisici ci vengono in mente: dalla tachicardia alla mancanza del respiro, l'innalzamento della pressione e l'aumento della sudorazione, … così ogni dolore fisico, ogni corpo che perde funzionalità, ogni sospetto di non guarigione, paura del futuro e la domanda “chi sono io oggi”, si rendono così visibili durante i processi di recupero. La mente può infatti, influenzare il corpo e svolgere un ruolo determinante nella salute e nella cura della malattia, intervenendo nello svelare e costruire significati che uniscono parti, come la mia esperienza clinica sembra mettere in luce.

In ciascuno di noi sono attive tre macroaree in interazione continua (fisica, sociale e psichica). Nel caso di un trauma/malattia, ognuna di queste tre aree viene fortemente esposta a pericolo di destrutturazione; in assenza di integrazione si può giungere a mettere a repentaglio la stessa possibilità di vita. È proprio quando il vissuto conseguente al trauma è accompagnato dalla sensazione di “dolore senza parole” che coinvolge tutto. Nell’esperienza della patologia improvvisa (ad es: ictus, esiti di incidenti stradali, ecc…), si fa riferimento ad una perdita e l’elaborazione del lutto è quindi ancora più difficoltosa essendo possibile un confronto tra le condizioni precedenti il trauma e quelle successive e spesso la guarigione è la conquista di una immagine di sé in equilibrio con la nuova realtà psicofisica e ambientale.

La via che porta alla evoluzione del paziente avviene attraverso il vivere esperienze di nuove realtà, attraverso lo sperimentare di poter essere accettati, accolti anche “così”. Capita frequentemente che la prima reazione nel paziente sia il desiderio di non voler essere visti così, di vergognarsi. Il riuscire a mostrarsi e il riuscire a vivere la realtà del “ho avuto una malattia” è una conquista che richiede tempo. Il processo terapeutico deve consentire il raggiungimento di un equilibrio tra stabilità e crescita delle rappresentazioni del Sé cioè il bisogno di sentirsi se stessi e nello stesso tempo il bisogno di costruire nuovi significati per una piena partecipazione ad una vita più autentica e creativa.

Inoltre, emerge frequentemente, nella storia di questi pazienti, la presenza di eventi stressanti che possono avere anche favorito l’insorgere della recente malattia. Per la relazione tra eventi stressanti e vulnerabilità è probabile che nel corpo di quella persona fosse già pertanto presente una 'depressione' o uno squilibrio energetico-immunologico.

L'approccio PNEI consente anche allo psicologo di guardare al disagio come disequilibrio che coinvolge mente, corpo, ambiente e che necessita pertanto di essere affrontato tramite sinergie di saperi e con metodiche integrative (ad es: fitoterapia, omeopatia, ...)

 

Bibliografia

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