L’ANSIA, MALATTIA E RICOVERO
Una ricerca effettuata presso la degenza u.o. medicina fisica e riabilitazione - Ausl Forli’ -ospedale di Forlimpopoli
Allo scopo di capire meglio il rapporto tra le malattie e le emozioni che sperimentate dai malati, il reparto di medicina riabilitativa dell’Ospedale di Forlimpopoli (FC) ha proposto ai pazienti ricoverati la partecipazione ad un’attività di ricerca.
Tale collaborazione si è realizzata in maniera anonima e volontaria tramite la somministrazione dello S.T.A.I., che è stato presentato come un questionario di valutazione della personalità.
I questionari sono stati somministrati dalla tirocinante psicologa* con la supervisione della psicologa del reparto, e lo studio prende avvio dall’aver osservato che di frequente, nei pazienti con disabilità acquisita temporanea o definitiva, si possono verificare sindromi ansiose o depressive, disturbi dell’adattamento, difficoltà di esprimersi e preoccupazioni per il futuro, che possono condizionare i rapporti con gli altri o lo stato di salute complessivo.
L’ipotesi di partenza è che ci possa essere una correlazione tra lo stato di malattia e l’ansia.
Raccogliere una quantità di dati ampia ed eterogenea, date le differenze tra i partecipanti in termini di età, aspetti culturali, sociali e di patologia, permetteva a nostro avviso di avere una rappresentatività più reale del rapporto esistente tra malattia ed ansia.
Campione: Per quanto riguarda la popolazione esplorata, hanno partecipato 67 pazienti, 24 uomini e 43 donne, nel complesso di età compresa tra i 23 e gli 86 anni, ricoverati nel periodo tra Settembre 2009 a Febbraio 2010.
Di queste persone il 70% ha una diagnosi di natura ortopedica, il 18% circa di natura neurologica (ictus, aneurismi, ecc), il 9% incidente, il restante problematiche di tipo oncologico.
Guardando il campione per intero, l’età media dei partecipanti risulta 65 anni e una distanza dall’evento di circa 30 giorni e una prognosi buona nel 82% delle situazioni.
Tendenzialmente le persone con problematiche di tipo ortopedico hanno una degenza di circa 15 giorni e arrivano a seguito dell’operazione in tempi brevi, mentre le persone che hanno avuto eventi più complessi possono permanere in reparto fino a 2 mesi e arrivare in tempi molto più estesi a seconda delle condizioni internistiche precedenti.
Premessa
Il corpo, “strumento primario per costruire la propria identità”, riconosciuto malato, riceve le cure del caso: una percepita inadeguatezza diagnostica e assistenziale, un dubbio di funzionalità, rompono l’equilibrio e possono scatenare il vissuto ansioso.
Il paziente ricoverato deve affrontare il reparto ospedaliero, con il suo ambiente microsociale diverso dall’ambiente domestico; deve far fronte alla minaccia tangibile alla salute, che il ricovero sottolinea; perde infine, a causa della condizione di malato, il controllo del ruolo, dell’immagine, della relazione interpersonale.
Gli ospedali sono comunita’ che per funzione alimentano l’ansia anche in soggetti che non presentano quadri psicopatologici di personalita’.
I pazienti sono in apprensione non solo per il loro stato di salute, ma anche per il benessere delle loro famiglie; tra di essi, chi deve essere sottoposto ad un intervento chirurgico, affronta in aggiunta anche la minaccia fisica e psichica di un’operazione.
Il ricovero in ospedale implica la perdita dell’indipendenza, la separazione dalla famiglia, routine e procedure sconosciute ed inevitabili timori circa il proprio stato di salute. La stabilita’ cede il posto all’insicurezza e la famiglia e gli amici divengono visitatori.
Alcuni studi hanno evidenziato, quali fattori stressanti nel corso di un ricovero in ospedale, la lontananza dalla famiglia, l’assenza dal lavoro, la malattia, l’apprensione per una cura che s’immagina dolorosa, la vista di un paziente molto ammalato, gli esami clinici, l’uso della padella e la notte.
Ricerche mettono in luce in aggiunta che nel ricovero il paziente prevede indifferenza, lontananza, ostilità da parte del personale sanitario e degli altri malati. I disturbi ansiosi, che sono uno dei primi segni dello stress dell’organizzazione fobica, sono anche l’espressione dell’attesa, della frustrazione inevitabile, del rifiuto che si ritiene seguirà la richiesta di aiuto: una struttura o un personale sanitario molto accudenti scatenano potenti attaccamenti, mitizzazione. L’attesa del rifiuto e della frustrazione produce comprensibilmente preoccupazione pessimistica, tensione, depressione dell’umore e turbe somatiche del sonno.
Un tipo di organizzazione cognitiva particolarmente vulnerabile all’evenienza del ricovero è quello di tipo fobico per il quale i timori più frequenti consistono nella scarsa capacità di affrontare il mondo sociale e fisico, nelle minacce alla salute fisica e mentale e nella perdita del controllo.
Emozioni e dolore
Ancor più difficile risulta l’esperienza per le persone che provano dolore. L’ Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) afferma che il dolore e’ un’esperienza emotiva e sensoriale spiacevole, associata ad un danno tissutale in atto o potenziale.
L’espressione emotiva e’ parte integrante del dolore: la coloritura emotiva, unitamente alla valutazione personale dell’esperienza, conferiscono al dolore la dimensione piu’ globale della sofferenza.
Del dolore possiamo inoltre dire che si tratta di un’esperienza personale e privata, comune a tutti gli individui e tuttavia sempre unica. Il modo in cui un individuo reagisce al dolore e’ estremamente complesso e modulato da tanti fattori (emotivi, culturali..); varia considerevolmente da un individuo all’altro ed anche, per quanto riguarda la stessa persona, in circostanze diverse.
La reazione al dolore presenta manifestazioni fisiologiche (ad es: pallore, pressione alta, tensione muscolare, nausea, irrequietezza) e reazioni nel comportamento: se le prime sono spesso rintracciabili in quasi tutti gli individui, le seconde variano molto da un soggetto all’altro. Infatti, le condizioni fisiche, lo stato emotivo ed il modo in cui una persona e’ stata condizionata a reagire alle situazioni di stress, influenzano le sue reazioni al dolore.
La soglia del dolore, cioe’ il limite dopo il quale uno stimolo nocivo viene percepito come dolore, e’ in prima linea di natura fisiologica. La tolleranza verso il dolore, cioe’ la durata nel tempo e l’intensita’ del dolore che una persona accetta prima di avere una reazione, verbale o non verbale, al dolore e’ invece grandemente influenzata da fattori psicologici e socioculturali.
Tra i fattori emotivi che possono incidere sul dolore troviamo l’ansia e la depressione.
Un’analisi della letteratura non consente di definire una chiara relazione tra ansia anticipatoria e dolore: talora l’ansia incrementa il dolore, talora non sembra avere alcun impatto su di esso. Discusso e’ anche il rapporto di causalita’ tra dolore ed ansia: dolore ed ansia possono contribuire l’un l’altro, in un circolo vizioso.
In tutto il regno animale, l’ansia ha la stessa importanza delle pulsioni primarie come la fame, la sete per la conservazione della specie. Tutta l’esistenza dell’individuo e’ centrata sull’allarme, inteso come percezione di pericoli provocati da agenti esterni o interni, e sulle relative azioni di lotta o di fuga: l’ansia, come il dolore, fa parte di questo complesso sistema di allarme.
L’ansia deriva dalla consapevolezza di ciascuno di noi di non avere un sufficiente potere di controllo sul mondo (esterno od interno) e di non poterne predire le conseguenze.
Per quanto riguarda il rapporto tra ansia e dolore, possiamo parlare di parallelismo e di sinergismo: ambedue, lo abbiamo visto, rappresentano un sistema di allarme, la prima sul versante psichico, il secondo su quello somatico. I substrati anatomici sono in parte coincidenti (ad es. sistema libico, sistema nervoso autonomo, ecc.), i correlati neurochimici utilizzano comuni mediatori. Entrambi poi hanno un carattere pulsionale che obbliga l’individuo ad impegnarsi in un comportamento finalizzato al loro allontanamento od alla loro neutralizzazione. Non stupisce quindi che l’ansia svolga una funzione sinergica nei confronti della percezione dolorosa, agendo da amplificatore del messaggio nocicettivo. Benchè l’ansia sia piu’ comunemente associata al dolore acuto, può essere una componente del dolore cronico.
L’ansia può anche diventare una modalita’ espressiva di una persona (“ansia di tratto”): in questo caso condiziona una soglia del dolore diminuita, esalta il dolore sebbene la persona che soffre, sappia sempre localizzare il dolore in maniera precisa.
Il dolore cronico e’ frequentemente associato a depressione, piu’ o meno severa: la sua severita’ sembra infatti essere un buon predittore dell’intensita’ del dolore e della lamentela del dolore. Talvolta eventi stressanti maggiori, vissuti come perdite reali o fantasmatiche (ad es. morte o malattie gravi di familiari stretti, grave malattia personale, perdita di qualcosa percepito come molto importante) possono agire come precursori o antecedenti di affezioni dolorose croniche, come le cefalee. E capita che curando una cefalea emerga frequentemente una sintomatologia chiaramente depressiva.
Da un punto di vista psicodinamico, pazienti con dolore cronico e depressi condividono l’incapacita’ a modulare ed esprimere sentimenti intensi ed inaccettabili. Non di rado tali pazienti percepiscono infatti il dolore come colpa. Nei depressi, il dolore viene a perdere la funzione di “segnale corporeo localizzato” divenendo un dolore corticalizzato, un dolore psichico, che si trasforma in una preoccupazione esistenziale. Il comportamento nella depressione grave, che spesso ricorda il comportamento dell’animale ferito che si lascia morire, porta a trascurare il dolore come segnale, ma lo trasforma in una causa di disperazione, rischiando di far perdere le capacita’ critiche nei confronti della sintomatologia stessa.
Una caratteristica personologica riscontrabile in pazienti con dolore cronico e’ la cosiddetta alessitimia, termine che indica l’incapacita’ di esprimere e verbalizzare i propri sentimenti e le proprie emozioni. I pazienti alessitimici sono portati a soffrire un dolore “nel corpo” dal momento che non sanno vivere le loro emozioni “dolorose” in altro modo.
L’alessitimia, nei pazienti algologici, e’ strettamente associata ad una quasi delirante convinzione di malattia “organica” e ad una forte, spesso insuperabile, ed inconscia resistenza a riconoscere il potenziale ruolo di fattori psicologici nella genesi, perpetuazione o scatenamento/aggravamento del dolore anche quando questo risulti evidente.
L’alessitimia non rappresenta solo un’incapacita’ di verbalizzare le proprie emozioni e di associarle ad eventi significativi ma e’ contemporaneamente un’utile condotta controfobica, una difesa psichica, finalizzata a focalizzare l’attenzione sul sintomo somatico e non su quanto avviene nel proprio Sè: il dolore somatico rappresenta quindi l’”esteriorizzazione” di un’angoscia piu’ profonda.
Tanti fattori possono influire sull’esperienza del dolore anche legati alla permanenza in ospedale come abbiamo visto. Alcuni pazienti tendono ad essere ansiosi e preoccupati per l’eventualita’ di errori e/o negligenze durante il ricovero. La mancanza di privacy può essere un ulteriore motivo di ansia e contribuire alla percezione del dolore fisico e morale.
Inoltre, la mancanza d’informazioni, agendo come mezzo d’incremento dell’ansia, può provocare maggior dolore e sofferenza. Durante il ricovero, il problema della comunicazione e dell’informazione, deve essere considerato come elemento importante, all’interno della relazione medico-paziente ed infermiere-paziente, per ridurre il livello di ansia.
Nel personale sanitario, invece, il dolore viene spesso considerato una conseguenza inevitabile della malattia e, proprio perchè e’ un fenomeno atteso, non sempre viene accolto o sedato. In altri casi la mancata sedazione può derivare da convinzioni errate rispetto ai farmaci o ai loro effetti collaterali.
Sul piano psicologico, la presenza di dolore fisico introduce ad esempio nel paziente con patologia in fase terminale, un ulteriore ed insopportabile livello di perdita. Infatti, il dolore fisico priva il malato della residua possibilita’ di godere e vivere pienamente l’ultimo periodo della vita. Inoltre, la presenza di una sindrome dolorosa induce, anche nei familiari, reazioni che compromettono un sereno rapporto con l’ammalato portando alla mente, talvolta con violenza, sentimenti di paura, di colpa e di perdita.
L’insorgenza di patologie psichiatriche e’ piuttosto frequente nel malato con dolori cronici maligni: secondo alcuni studi, il 13% dei pazienti affetti da cancro presenta una depressione maggiore ed il 4% uno stato d’ansia conclamato. La presenza del dolore intensifica notevolmente il livello d’ansia che in genere accompagna la malattia, l’incertezza continua e l’incapacita’ d’interpretare il segnale doloroso mantengono poi in costante stato di allarme l’organismo con conseguenze che coinvolgono anche il sistema immunitario. Infatti, i pazienti con dolori persistenti, hanno una vita significativamente piu’ breve rispetto ad ammalati terminali che non soffrono sindromi dolorose.
Secondo Sandler, il dolore psichico deriva dalla discrepanza rappresentazionale del gap che si trova tra il Sè e l’ideale del Sé, è un elemento comune a tutti gli stati affettivi spiacevoli e ogni dolore è psichico prima di tutto. Il passaggio da ”dolore psichico” a ”dolore fisico” avviene per spostamento di aspetti della rappresentazione del Sè verso la rappresentazione di un danno fisico oppure è una soluzione molto funzionale per pazienti che non riescono a sopportare l’umiliazione (es: per le persone con aspetti narcisisti il dolore fisico crea una ‘motivazione’ accettabile)
Una delle conseguenze del dolore può essere la depressione, in seguito al fallimento di ogni tentativo atto alla riduzione di quest’ultimo oppure si tratta di uno stato clinico misto in cui non si giunge ad una soluzione difensiva stabile
“E quando il corpo anatomico ci è infedele, ci mette in scacco, ci tradisce, quando non ci riconosciamo nel “nostro corpo”, come se esso non ci rappresentasse come vorremmo, ecco che ci sentiamo vulnerabili, esseri mutanti nel mondo, sottoposti ad un divenire inarrestabile a cui non possiamo sottrarci. Il corpo malato, e le sue ferite, rimandano ad un altrove che «trascende il corpo, fanno appello ad una ricerca di senso insito nella minaccia della malattia e nel possibile disfacimento del corpo.” Tomellini
Al corpo si chiede di rappresentare un’immagine, un ideale di perfezione che lo renda uno fra tanti, un eguale a modelli infiniti di corpi levigati, tonici, sottratti al divenire, perennemente giovani.
L’evento malattia introduce nel fluire della vita una scansione insopportabile; apre un varco al pensiero della morte, fa uscire il corpo dal “silenzio”, lo porta prepotentemente in prima pagina, lo rende percepibile come ostacolo al mito dell’elisir di lunga vita.
Nella cultura attuale la malattia, il dolore fisico, la sofferenza psichica, la vecchiaia, sono negate e in quanto tali risulta più difficile conviverci.
L’ansia come problema psicologico
“E’ difficile negare il fatto che il mondo sia praticamente intriso di ansia. Essa comincia già dall’infanzia con la paura dell’ignoto e prosegue per tutto l’arco dell’esistenza concludendosi ancora con la paura della morte.” Dott. Di Giuseppe Luigi
Molteplici sono le ragioni esistenziali e sociali che possono ingenerare situazioni d’ansia nelle persone ma solo recentemente, col sorgere ed il perfezionarsi della psicologia clinica, ci si è resi conto della sua incidenza nella vita dell’uomo.
L’ansia è uno stato affettivo così generale e radicale nell’uomo che può essere considerato non tanto un sintomo o una sindrome delimitata, quanto una modalità di esistenza i cui estremi entrano nel dominio della psicopatologia partendo da sentimenti di aggressività, di inquietudine, di paura.
Il Dizionario di Psichiatria pubblicato a cura dell’ “American Psychiatric Association” (1978) definisce l’ansia come uno stato “di apprensione, di tensione, di disagio che scaturisce dall’anticipazione di un pericolo, la cui provenienza è in gran parte sconosciuta o non riconosciuta”.
Invece viene definita dallo Zingarelli: "Stato emotivo spiacevole, accompagnato da senso di oppressione, eccitazione e timore di un male futuro, la cui caratteristica principale è la scomparsa o la notevole diminuzione del controllo volontario e razionale della personalità". Essa è legata allo stress. Alcuni studiosi hanno identificato lo stato ansioso nella tensione dolorosa tra la parte emotiva e quella cognitiva dell’individuo. L’ansia scatena quindi un vero e proprio disordine psico-ormonale, che produce uno stato insostenibile di grande difficoltà adattativa, oggi sempre più presente, nell'ambiente artificiale della società industrializzata. Alti livelli d’ansia sono caratterizzati, essenzialmente, da una grande irrequietezza e da penosi sintomi.
Il manuale di classificazione dei disturbi psichici D.S.M. VI li elenca: dispnea; palpitazioni cardiache; dolori al torace; sensazione di affogare o di essere soffocato; sbandamenti, vertigini, o sensazione di non stare bene in piedi; sentimenti di irrealtà; parestesie (formicolii alle mani e ai piedi); improvvise sensazioni di caldo e di freddo; sudorazione; sensazione di svenimento; tremori fini o a grandi scosse; paura di morire, di impazzire, o di fare qualcosa di incontrollato durante l’attacco.
Lo stress, in generale e ancor di più a seguito di una malattia, è la condizione nella quale un organismo si trova quando deve adattarsi a un cambiamento o a una situazione che gli viene imposta. Esso dà luogo ad una ampia serie di sintomi essendo la risposta organismica a tutta una complessità di stimoli considerati pericolosi. Lo stress logorante può portare ad una vera patologia di ansia continua, non strutturata, libera, che investe sia la mente che il corpo.
E' risaputo, scrive Lawrence Steinmam, che "uno stress... può aggravare una malattia autoimmune influendo sull'ipotalamo e sull'ipofisi, i quali a loro volta secernono ormoni che promuovono l’infiammazione. (...) Queste scoperte possono offrire una spiegazione alla ben nota osservazione clinica che l'ansia può aggravare una malattia"
Originariamente intrapsichica, l’ansia si distingue dalla paura, in quanto è la risposta emotiva ad una minaccia o a un pericolo coscientemente riconosciuto e di solito esterno.
L’ansia si accompagna a modificazioni fisiologiche simili a quelle della paura. Essa può essere considerata patologica quando è presente in grado tale da interagire con l’efficienza della vita, il conseguimento di obiettivi, la soddisfazione desiderata e un ragionevole benessere emotivo.
Negli ultimi anni molti studiosi che hanno cercato di risolvere i problemi teorici ed anche pratici relativi all’ansia, fra i quali lo statunitense Raimond Cattell (1961), hanno introdotto una distinzione fra ansia di stato e ansia di tratto, la prima pari ad una situazione momentanea di ansia definita stato e la seconda pari ad un tratto relativamente stabile della personalità del soggetto definita tratto.
Il modello teorico di C. Spielberger
Questa differenziazione fra stato e tratto fu ripresa ed elaborata da Charles Spielberger (1966) e in questo modello l’ansia di stato è caratterizzata da sensazioni soggettive di tensione, apprensione e nervosismo che compaiono assieme all’attivazione del sistema nervoso autonomo. L’ansia infatti dà, come esperienza particolare, un sentimento di insicurezza, di impotenza di fronte ad un danno percepito; può costituire fonte di preoccupazione, oppure può manifestarsi come tendenza a fuggire e ad evitare la minaccia (Baker, 1980). Questo stato può variare, nel tempo, di intensità in relazione agli stress che colpiscono l’individuo.
L’ansia come tratto, invece, si riferisce alla tendenza all’ansia che caratterizza permanentemente singoli individui; in altre parole si tratta della tendenza personale a percepire una vasta gamma di condizioni di vita come minacciose ed a reagire ad esse con ansia eccessiva. Questa tendenza rimane latente finchè non viene resa attiva da stress associati a pericoli particolari.
Il modello di Spielberger, relativo alla distinzione tra stato e tratto e la loro reciproca influenza, può essere così schematizzato:
- quando una situazione è valutata come minacciosa viene evocata una risposta di STATO;
- situazioni o circostanze che sono valutate come rischiose di insuccessi o minacciose per l’autostima saranno percepite con maggiore intensità da soggetti che presentano elevati livelli di TRATTO rispetto a soggetti con bassi livelli dello stesso;
- i ripetuti contatti con situazioni stressanti portano l’individuo a sviluppare dei meccanismi di autocontrollo dell’ansia o di difese attraverso la minimizzazione della minaccia.
Lo strumento “State-Trait Anxiety Inventory (S.T.A.I.)”
Allo scopo di valutare l’ansia, sono stati realizzati molti test psicologici, tra i quali il più utilizzato è lo “State-Trait Anxiety Inventory” (S.T.A.I) di Spielberger, una delle scale d’ansia più usate in campo diagnostico e clinico sia in Italia che nel mondo. Essa è composta da 40 domande alle quali si risponde a crocette e che indagano il “come ci si sente”.
Per la valutazione dello “stato” si richiede ai soggetti di esprimere come si sentono “in questo determinato momento”, attribuendo un punteggio che descrive l’intensità dei loro sentimenti: 1) per nulla; 2) un po’; 3) abbastanza; 4) moltissimo. Invece, per valutare il “tratto”, si chiede di indicare come si sentono “generalmente”, valutando la frequenza con cui provano sentimenti di ansia: 1) quasi mai; 2) qualche volta; 3) spesso; 4) quasi sempre.
La teoria di TRATTO-STATO d’ansia predice una più alta correlazione fra lo STATO e il TRATTO in situazioni di valutazione sociale, e più basse correlazioni in situazioni di pericolo fisico. Inoltre la correlazione fra le scale sembra dipendere dalla qualità dello stress associato con le condizioni nelle quali la scala STATO è somministrata.
Le correlazioni tra le scale STATO e TRATTO risultano più alte in condizioni che pongono qualche minaccia all’autostima, o in circostanze dove viene valutata l’adeguatezza della persona; e le correlazioni sono più basse in situazioni caratterizzate da pericoli fisici. Per lo più, i cambiamenti nello STATO provocati da minacce di pericolo fisico sembrano essere non correlate al livello del TRATTO.
Ipotesi di partenza
Per la valutazione dell’ansia dei soggetti intervistati, si è partiti dalla formulazione di alcune ipotesi, che sono state oggetto di studio.
1) Ci sono differenze significative in base al genere. Si ipotizza una più alta reattività ansiosa tra i pazienti di sesso femminile.
2) Il livello d’ansia misurato dalle due scale cambia in base all’età. Si ipotizza un picco d’ansia nei giovani adulti perché si trovano in una fase di vita caratterizzato dalla progettazione rispetto al futuro e il bisogno di autonomia mentre tra gli anziani è più ipotizzabile che ci sia un’accettazione e un adattamento alla malattia in tempi minori.
3) Ci sono differenze in base al tipo di evento: ortopedico (protesi ginocchio/anca, frattura femore/caviglia, ernia); neurologico (ischemia cerebrale, tetraparesi, emiparesi, paraparesi); oncologico (metastasi ossea, necrosi femore) e incidenti stradali. Si ipotizza un’ansia maggiore nelle persone con problematiche di tipo neurologico, oncologico e incidenti stradali, rispetto a quelle ortopediche, per il carattere improvviso e minaccioso dell’evento.
4) Il risultato cambia in base alla prognosi (buona, probabili esiti, pazienti cronici). Si ipotizza che l’ansia sia maggiore in funzione della prognosi, in particolare che la presenza di deficit cognitivi peggiori la situazione mentre la cronicità della malattia implichi probabilmente un maggior adattamento e quindi un’ansia minore.
5) Il livello d’ansia dipende anche dalla distanza dell’evento. Si ipotizza che nella fase iniziale del ricovero, subito dopo l’evento, ci siano risposte di ansia più elevate e che tendano a calare con il tempo.
6) Il fatto che in alcuni casi la scala di STATO sia maggiore rispetto a quella di TRATTO (test falsati) è riconducibile alla preoccupazione di essere valutati nella salute mentale. Più alti sono i livelli d’ansia di tratto e più probabile è che un individuo possa sperimentare punte elevate di ansia di stato in situazioni percepite come minacciose, specialmente in quelle che comportano rapporti interpersonali nei quali è ravvisabile una minaccia all’autostima del soggetto.
Aspetti qualitativi della ricerca
La maggior parte delle persone incontrate ha accettato volentieri di partecipare alla ricerca, mostrandosi felice di rendersi utile e allo stesso tempo di passare un po’ di tempo in compagnia.
Solo una persona si è rifiutata palesemente di partecipare, e altre 2 hanno reagito alle domande ‘arrabbiandosi’ e sminuendo l’importanza del questionario, dove una di queste si è addirittura rifiutata di rispondere ad un item (“mi sento bene”). Per una buona percentuale delle persone ricoverate si è ritenuto opportuno, in seguito ad un confronto con il medico fisiatra di riferimento, non somministrare il questionario poiché non erano presenti le condizioni fisiche idonee per partecipare.
A posteriori abbiamo pensato che sarebbe stato interessante tenere il conto delle persone che non hanno partecipato alla ricerca e di quelle che non erano nelle condizioni fisiche per partecipare.
Anche il contributo di familiari sarebbe stato di grande ricchezza ma non siamo riusciti a coinvolgerli.
Durante la somministrazione del questionario è stato riscontrato da più persone la difficoltà a comprendere il significato di certi item (“vorrei poter essere felice come sembrano essere gli altri”, “mi sento disteso”, “mi sento sotto pressione”), specie nelle persone più anziane e in quei pazienti con problemi neurologici.
In queste persone è emersa anche una gran difficoltà ad attenersi ai quattro livelli di risposta previsti dal questionario e la tendenza a rispondere con avverbi di frequenza che ciascuno aveva in mente in quel momento. Questo si è verificato in particolar modo nella prima scala, quella che misura l’ansia di stato (scala più reattiva allo stato attuale, cioè inclusa la malattia).
E’ stato possibile osservare come molte persone abbiano tentato di raccontare qualcosa di sé, qualcosa che veniva evocato da una parola presente nell’item a cui avevano appena risposto, tanto che alcune di loro sono arrivate proprio a parlare di aspetti personali molto intimi e dolorosi (lutti, tentativo di suicidio, malattie, ecc…).
Si è potuto avvertire il bisogno profondo di giustificare le proprie risposte, di motivare la scelta di una risposta piuttosto che un’altra, anche se prima della somministrazione veniva chiarito esplicitamente che non c’erano risposte giuste o sbagliate.
Durante lo svolgimento del questionario, molte persone, soprattutto donne, si sono commosse e lasciate andare in un pianto di sfogo, probabilmente per avvenimenti legati al significato di qualche item, e una delle domande che sembra aver angosciato maggiormente è “mi sento un fallito”. Questo aspetto potrebbe essere in relazione con il tempo 'fermo' che da la malattia per pensare e all'aspetto di bilancio della vita che spesso ne deriva.
Da parte degli uomini, invece, è stato possibile notare maggior imbarazzo e timidezza rispetto le donne, ansia e tensione nella prima scala che si è attenuata e sciolta durante lo svolgimento, come a mettere in luce un atteggiamento più imbarazzato di fronte all’esporsi parlando di sé.
Ipotesi deduttive
Partendo dal presupposto che i dati disponibili sono troppo pochi per fare uno studio statistico, a livello qualitativo è stato possibile riscontrare nel campione generale una bassa percentuale di ansia nella norma e una percentuale alta di test falsati, cioè di test in cui il punteggio dell’ansia di stato è risultato maggiore rispetto a quello dell’ansia di tratto.
Sarebbe stato interessante, anche se di difficile applicazione anche per il breve tempo di permanenza dei pazienti ortopedici in reparto, pensare ad un retest per valutare eventuali cambiamenti nell’andamento dell’ansia nella persona specifica, con il variare del tempo, delle conquiste fisiche, ecc…
I primi dati maggiormente d’impatto sono che l’ansia nella norma è presente solo nel 20% delle persone e che il 49% dei test è risultato appunto falsato malgrado sia un test valicato statisticamente.
Contrariamente a quanto ci si aspettava, non si sono riscontrate differenze significative in base al genere e le donne non hanno manifestato una maggiore reattività ansiosa rispetto agli uomini, anche se è emersa tra questi ultimi un’alta percentuale di test falsati, che mette in luce come sia più difficile al genere maschile dire come ci si sente e ammettere le proprie debolezze, da cui si cerca in qualche modo di difendersi. Coerentemente all’idea sociale gli uomini presentano una maggiore attitudine a difendersi dalle emozioni intense perché percepite come debolezze
Rispetto alla variabile dell’età, è emerso un picco d’ansia anche tra gli anziani, quindi è stato possibile falsificare l’ipotesi iniziale in base alla quale nella fase avanzata della vita ci sarebbe un’accettazione e un adattamento alla malattia in tempi minori. Inoltre man mano che aumenta l’età, si è visto come aumenti anche il numero di test falsati. Le persone più giovani hanno invece un numero minore di test falsati come se fossero più allenati a parlare di emozioni o meno preoccupati che l’evento infici la loro vita, o li metta a confronto con il decadimento fisico irrecuperabile, sinonimo di vecchiaia.
Per quanto riguarda le differenze in base al tipo di evento si è riscontrata una reattività maggiore tra i pazienti con problematiche neurologiche, soprattutto rispetto agli ortopedici. E’ stato possibile osservare come tra le persone con patologia oncologica, anche se sono un numero ridotto rispetto al campione, non ci siano test falsati e come i pazienti che hanno avuto incidenti stradali siano i più giovani ma anche quelli osservati ad una maggior distanza dall’evento. Le persone con una problematica di tipo neurologico, infine, hanno un’età media e sono stati valutati circa ad un mese di distanza dal trauma mentre le persone con patologia ortopedica sono i più anziani ma anche quelli osservati più vicini all’evento.
Rispetto alla prognosi, è stato possibile disconfermare l’ipotesi iniziale rispetto alla quale l’ansia sarebbe maggiore in funzione della prognosi, in quanto anche tra i pazienti con una prognosi buona sono emersi elevati livelli d’ansia. Inoltre le persone che hanno probabili esiti, hanno anche un numero alto di test falsati.
Per quanto riguarda la distanza dall’evento sono stati osservati cambiamenti significativi in funzione di questa variabile e in particolare è stato riscontrato che man mano aumenta la distanza dall’evento, c’è una percentuale più alta di ansia variata forse parallelamente alla gravità dell’evento.
Infine, rispetto alle persone con supporto psicologico, sarebbe stato interessante mettere in relazione i dati con la fase del trattamento psicologico (consulenza, inizio, trattamento, ecc…). Colpisce che i test falsati sono quelli che hanno la maggiore età e la minore distanza dall’evento. Da un esame sul caso emerge che le persone che hanno un’ansia nella norma hanno aspetti depressivi che il test non poteva misurare.
Di fronte alla presenza di un’alta percentuale di test falsati, si è potuto osservare come molte persone abbiano tentato di proteggersi da nuove situazioni percepite come minacciose mettendo probabilmente in atto dei meccanismi di difesa. Si può ipotizzare un utilizzo di:
- negazione: attraverso cui si è cerca di sfuggire alla sofferenza negando la realtà spiacevole che ha provocato lo stato di disagio;
- rimozione: (rifiuto) allontanando o cancellando gli effetti spiacevoli e i ricordi dell’esperienza traumatica dalla sfera della coscienza;
- Idealizzazione: costruendo caratteristiche onnipotenti e non rispondenti alla realtà oggettiva, al fine di proteggere i bisogni narcisistici e anche dello spostamento in base al quale si verifica un trasferimento di sentimenti inaccettabili su un oggetto “sostitutivo” che rappresenta l’oggetto “reale”;
- Razionalizzazione: come tentativo di “giustificare” attraverso comportamenti, ragionamenti ed argomenti un fatto che il soggetto ha trovato angoscioso e quindi costruire attribuzioni, ipotesi o ragioni esplicative di “comodo” per poter contenere e gestire l’angoscia;
- intellettualizione: si verifica ogni volta che il soggetto durante il colloquio, non appena viene sfiorato un argomento per lui fonte di disemotività, filosofeggia, interpreta o giustifica intellettualmente ogni cosa trasformando in intellettualizzazioni le sue ansietà più profonde per la assoluta necessità di controllare ogni cosa, pena la conseguente estrema insicurezza e lo scompenso;
- Diniego: meccanismo di difesa che abolisce dalla coscienza, desideri, pensieri, sensazioni o situazioni traumatizzanti, dolorose spiacevoli;
- isolamento: consiste nell'intellettualizzazione anaffettiva esasperata di situazioni emozionali scabrose o penalizzanti per il soggetto a causa di un meccanismo iperdifensivo.
Un’altra ipotesi può essere che parte delle persone con test falsati fosse allenata ad eventi traumatici, tipo diverse malattie o lutti recenti, tanto da alterare la possibilità di percepire ‘di solito’ e ‘ora’ come il test richiede.
È possibile anche che alcune persone con tratti molto infantili si sentano anche protette o gratificate dallo stato regressivo che la malattia, seppur temporaneamente, porta con sé.
Diversamente da quanto ci si poteva attendere, pur trattandosi di sole 2 persone rispetto al campione, è stata riscontrata nei pazienti con problematica cronica un’ansia variata nel 50% dei casi e la presenza di test falsati nell’altro 50%, potendo contraddire l’ipotesi iniziale in base alla quale ci si aspettava che, dopo tanto tempo, i pazienti cronici avessero avuto la possibilità di adattarsi più facilmente e vivere più serenamente la malattia.
Se si pensava che le persone con patologia ortopedica potessero reagire meglio di qualunque altra tipologia di pazienti, come se “le persone potessero essere più preparate a rompersi un osso piuttosto che avere una malattia neurologica”, è possibile osservare che non è così, poiché anche tra i pazienti ortopedici è stata riscontrata una percentuale alta di ansia variata, potendo concludere che non è solo la natura dell’evento a influenzare la reazione alla malattia. Da questo deriva una utile indicazione operativa e risulta importantissimo prendere in considerazione l’opportunità di un trattamento psicologico anche per queste persone per le quali non ci si aspetterebbe alcuna reazione patologica.
Si è potuto constatare inoltre come, al di là del tipo di evento, giocano un ruolo decisivo nell’esito finale, anche le caratteristiche personologiche, che fanno sì che si reagisca in maniera differente allo stesso tipo di trauma in relazione alla struttura di personalità, alle caratteristiche delle malattie e dal tipo di prognosi, dalle caratteristiche dell’ambiente sociale, affettivo, sanitario con cui il paziente si relaziona.
Nelle istituzioni l’attenzione e’ allora focalizzata sull’ “organo da riparare” e si rischia di vedere solo il tessuto leso senza considerare a chi appartiene. Nell’interazione terapeutica prevale un atteggiamento tecnico, per cui lo sguardo clinico diventata uno sguardo che separa e seziona, che fissa la sua attenzione sull’analisi fisico-biologica dell’organo malato e non sul malato stesso.
Avviene inoltre che nella relazione medico-paziente si prenda frequentemente la direzione di un rapporto di tipo tecnicistico-riparativo e si conceda poca attenzione alla sofferenza nella sua globalita’.
Nel momento in cui il personale rivolge il suo interesse alla sofferenza del malato, e non solamente al dolore, il paziente viene invece considerato in tutta la sua unicita’ ed irripetibilita’: non avremo piu’ solo il bene fisico del paziente ma anche il bene del paziente in quanto persona, una persona dotata di capacita’ di compiere scelte, di provare sentimenti, di crearsi un progetto di vita.
Considerare la sofferenza significa dunque per gli operatori vedere il paziente come una persona che esprime la sua malattia attraverso una gamma infinita di sentimenti, valori, paure, atteggiamenti e cose non dette. E questo è un aspetto soggettivo che tocca gli aspetti psichici di ciascuno.
La malattia, non può essere ricondotta ad esclusiva causa fisica e la conoscenza di un contesto esistenziale in cui essa si svolge, diventa per l’equipe un supporto indispensabile alla stessa raccolta dei dati anamnestici, finalizzati alla comprensione del disturbo entro il quadro dell’individualita’ del paziente.
L’aspetto piu’ importante per una buona assistenza e’ quindi quella di comunicare, di parlare con chi soffre. Valutare le cause del dolore, identificare gli interventi adeguati, trattare correttamente e sondare l’effetto di un trattamento valgono sempre; ma quando si assiste un paziente con dolore si deve sempre ricordare che una buona comunicazione ed interazione sono fondamentali per un trattamento adeguato.
Nel personale sanitario, la ridotta attenzione al problema del dolore può essere determinata da assuefazione al dolore altrui o ancora fungere da meccanismo protettivo per evitare che una continua esposizione ad elevati livelli di sofferenza spinga al burn out.
Nella considerazione che la relazione medico-paziente resta dunque il cardine terapeutico fondamentale, e che la priorità degli operatori è quella di porsi e di sentirsi abile ed efficace nel suo ruolo di “contenitore” dell’ansia del paziente, aiutandolo a scoprire progressivamente le proprie risorse interiori, guidandolo nel riconoscimento del proprio disagio attraverso anche il riconoscimento e la legittimazione di una ansia ‘normale’ cioè legata alla preoccupazione per la propria salute e per la dipendenza da altri per le cure necessarie.
La crisi esistenziale che causa una malattia nel paziente è espressione di un buon funzionamento quando porta a una maturazione. La crisi emozionale viene quindi a configurarsi inizialmente come una condivisione di blocco dell’esistenza, mancanza di energie necessarie per prendere qualche iniziativa che modifichi questo stato, esperienza di dolorosa impotenza e di vicolo cieco, sensazione di non poter intervenire, profonda perdita di sicurezza, sentimenti depressivi, disperazione e somatizzazioni.
Quest’anno anche l’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna (2010) ha conquistato una nuova definizione di «terapia del dolore» intendendolo come: l'insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore.
Nelle persone con malattia fisica il conoscere e comprendere la malattia e il sentirsi compresi possono influire sull’andamento della malattia stessa e sulla capacità di modulare la quotidianità in funzione di questo (sonno, alimentazione, a attività fisica)
Probabilmente attraverso un sostegno psicologico breve si può fornire ai pazienti un Io ausiliario che consenta di:
- contenere le emozioni e le ansie che scaturiscono dalla situazione malattia, per consentire il mantenimento dell’equilibrio psicologico,
- mobilitare meccanismi di difesa adeguati
- rafforzare gli aspetti comunicativi che favoriscono la compliance
La salute coinvolge la totalità somatopsichicosociale della persona e non è riconducibile a settori specifici del vivere, né può prescindere dalla soggettività dei diversi vissuti personali.
“il corpo vissuto è il nostro corpo, quello che non possiamo ignorare”.
Tomellini
Superare i problemi e difficoltà produce stress. Lo stress è un fenomeno normale della vita, permette di attivarsi per trovare un adattamento di fronte agli avvenimenti.
In definitiva ogni evento va inteso quindi in termini dinamici e come processo. Gli aspetti reattivi nelle persone possono essere adattivi o disadattivi. Esistono aspetti e tempi di ricostruzione e riorganizzazione del sistema colpito dall’evento e se riusciamo a tenerlo presente, possiam accoglierlo nei pazienti e nelle famiglie fino a permettere il raggiungimento di un equilibrio soddisfacente in tempi brevi, favorendo al sensazione di padroneggiamento degli eventi anche come antidoto al senso di impotenza che l’essere malato ha come ombra pesante e a volte umiliante al di là della natura dell’evento.
* un ringraziamento particolare a Sara Alessandrini per la collaborazione nella ricerca e nella stesura conclusiva delle riflessioni
BIBLIOGRAFIA
- Spielberger C.D. (1989), S.T.A.I. State-Trait Anxiety Inventory. Forma y. Adattamento italiano a cura di Pedrabissi e Massimo Santinello. Organizazioni Speciali. Firenze.
- Zannoni M. (2007), Valutazione dell’ansia di stato e di tratto in due gruppi, maschile e femminile, di pazienti internistici. Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica.
- Di Giuseppe L. (2004), Ansia, Stress, Malattia: dal quotidiano al patologico. Francavilla al Mare.
- Sandler: il dolore psichico
- Le malattie autoimmuni, in “Le Scienze”, n. 303, novembre 1993
- http://www.disinformazione.it/stressecancro.htm
- http://www.maldamore.it/i_meccanismi_di_difesa.asp
- http://www.diesis.com/algonet/?p=260
- http://www.ausl.pr.it/page.asp?IDCategoria=628&IDSezione=4862&ID=186196
- http://www.isfo.it/files/File/Recensioni%203D/Salmaso06.pdf
- http://www.ordpsicologier.it/ml_preview.php?id_ml=142